Perugia di Aldo Capitini (1978)

Introduzione ad A. Capitini, Perugia, punti di vista per una interpretazione, ristampa anastatica dell’edizione 1947 (Firenze, La Nuova Italia), a cura della Regione Umbria, Perugia, 1978; poi, con il titolo «Perugia» di Aldo Capitini, in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive; W. Binni, La disperata tensione cit.; W. Binni, Scritti politici 1934-1997 cit.

«Perugia» di Aldo Capitini

Questo volumetto, steso molti anni or sono, rimane tuttora veramente esemplare e freschissimo per la efficacia scrittoria rivelata dal suo taglio sicuro e non monotono, dai suoi agili e significativi passaggi (si pensi, ad esempio, alla indicazione della casa della Bonacci Brunamonti nei pressi di Via Armonica, con le sue case ottocentesche e lo spiazzo di sapore leopardiano, come avvio – attraverso il significato poetico di quei luoghi e di quella gentile poetessa ottocentesca, nutrita di echi leopardiani – all’aspetto della storia civile di Perugia e alla figura ottocentesca di Luigi Bonazzi), dal suo discorso chiaro e nitido e cosí denso di impressioni, giudizi, sobriamente, ma saldamente, appoggiati a date e dati precisi, inseriti agevolmente nel tessuto interpretativo cosí pacato e avvincente. E se la prima parte, piú diretta a cogliere gli aspetti vari dei luoghi, dei colli, delle vie, delle piazze, delle porte, dei monumenti artistici e della configurazione della città dentro il paesaggio dell’Umbria, può apparire piú apertamente suggestiva e poetica, anche la seconda parte, piú volta alla delineazione della storia civile della città (in parte attraverso le citazioni della Storia del Bonazzi, personaggio cosí caro a Capitini ed emblematico per la tradizione laica e democratica perugina), è tutt’altro che fredda ed espositiva, e, mentre si raccorda alla prima attraverso la chiara preferenza di Capitini per le zone piú campagnole e popolari (e per il Duecento umbro e popolare e per la sua carica di religiosità) di fronte a quelle troppo illustri, pur sentite nel loro valore storico ed estetico, si arriva poi cosí luminosamente nell’unico, ma centrale, ricordo personale, commosso e severo, tratto dalla esperienza autentica e fresca della fanciullezza: quello della celebrazione comunale della giornata del xx giugno (aperta dai «rintocchi funebri, distanziati delle due campane del Municipio») e concluso dalla espressione della preferenza per quella giornata alla luce di un immacolato senso di sdegno per l’ingiustizia e l’oppressione dei tiranni «chiusi nella falsa dignità del loro mutismo e dei loro comandi», che tanto dice sulla vocazione capitiniana democratica e antiautoritaria.

Un tono eletto e familiare insieme contrassegna la scrittura di Capitini e tanto piú fa risaltare, senza alcuna enfasi, i toni alti e intensi e sin maestosi e solenni della città che interpreta. Tutto concorre a rendere questo scritto una rappresentazione profonda di Perugia vista in molteplici prospettive e sotto varie luci (con la preferenza per quella invernale, piú congeniale alla città), dai colli che la circondano, dalla pianura, dalla torre campanaria del Comune, penetrata e percorsa nelle sue vie dalla periferia al centro, dal centro alla periferia, identificata nelle sue diverse parti aristocratiche, borghesi, popolari con acuta sensibilità estetica e socio-politica, rievocata, per tratti essenziali, nella sua forza civile (sia nel periodo piú glorioso e creativo del Medioevo e del primo Rinascimento, sia nella ripresa ottocentesca) con una capacità sintetica tesa a rendere la bellezza e insieme il significato storico e il senso della sua spiritualità. Sicché chi legge queste pagine ne trarrà un’impressione sicura delle qualità e caratteristiche di Perugia nell’incontro con le qualità e le caratteristiche del suo interprete congeniale, della sua forma di alta «semplicità» (ideale stilistico e ideale umano) che evita, pur cosí cólta ed esperta, ogni preziosismo e ogni esibizione retorica. In quella semplicità «c’è una forza dentro» (come Capitini dice dell’armonia umbra). E non sarà inutile, nei limiti di questa brevissima prefazione, esplicitare quanto un attento lettore pur avverte da solo: la forza della personalità dello scrittore e la forza del suo legame con la città interpretata.

Quella forza della scrittura (Capitini fu anche poeta) deriva infatti dalla grande energia spirituale e intellettuale dell’autore, svolta in una massa imponente di opere filosofiche, pedagogiche, religiose, etico-politiche, e in una coerente prassi ispirata di profeta e promotore di grandi idee di religione aperta e anticonfessionale, di nonviolenza e di nuova educazione democratica, di rottura e apertura della società e realtà esistenti (fino all’aggressione della stessa morte) verso una società radicalmente libera, giusta, fraterna, verso una realtà liberata dai limiti di quella attuale. E questa forza intera e complessa è intimamente legata a Perugia, sentita da Capitini come ispiratrice di intuizioni e comportamenti essenziali, ed egli (la maggiore personalità, di gran lunga, che Perugia e l’Umbria abbiano espresso in questo secolo) ha fatto inconfondibilmente valere nella sua vita e nella sua opera l’accento e la tensione della migliore tradizione perugina e umbra in cui era fortemente radicato per nascita, per origini, per profondo sentimento di congenialità. Sentimento che Capitini espresse in tante delle immagini piú ispirate dei suoi scritti dove campeggia la città alta sui colli e sulle valli (Perugia come nuova Gerusalemme da cui inviare il suo messaggio ideale e attivo), cosí come egli vedeva la sua città dalla torre campanaria del Municipio o dall’aperta terrazza della sua ultima abitazione in via dei Filosofi, ricavando dai lontani rumori e voci delle domeniche e delle feste popolari un incentivo di singolare freschezza e concretezza al suo profondo tema e immagine emblematica della «festa».

E a Perugia e da Perugia egli svolse la sua fecondissima attività di lotta, di organizzazione, di educazione contro la dittatura fascista e a favore di quell’originale «liberalsocialismo» di cui egli fu primo ideatore e che in lui ebbe la direzione piú decisa e originale, per poi, dopo la guerra e la liberazione, farsi a Perugia geniale inventore di quei «Centri di orientamento sociale» che rappresentavano per lui l’inizio di un potere dal «basso», di un «potere di tutti», di una politica e di una amministrazione che cominci nella libera discussione di assemblee popolari.

Perugia fu per lui il centro concreto e ideale della sua attività e l’appoggio costante della sua ispirazione, il luogo o l’intreccio di luoghi (quei colli, quelle vie, quelle piazze che percorreva solo o insieme agli amici piú cari) su cui collocare le sue intuizioni piú alte, le sue immagini piú intense, i suoi sentimenti e i suoi affetti piú intimi e sacri e insieme un vivo nucleo di tradizioni cui collegare lo sviluppo della sua stessa prospettiva spirituale e della sua prassi coerente.